Ai nostri giorni la classificazione delle zone a rischio esplosione riguarda molti settori della industria e comprende l’utilizzo delle più diverse apparecchiature. Questa grande varietà di dispositivi ed applicazioni non deve farci dimenticare che l’origine delle tecniche di contenimento del rischio esplosione risiede laggiù, in quelle oscure miniere dove tutto ha avuto inizio.
di Andrea Battauz, R&D Project Engineer di Cortem Group
Sono passati due secoli dal brevetto della lampada di sir. Humphrey Davy nel 1815, l’industria nel frattempo è radicalmente cambiata e con essa il mondo intero.
Per chi non lo sapesse, sir. Humprey Davy inventò una lampada che abbassava il rischio di esplosione all’interno delle miniere di carbone. Si trattava di una lampada a fiamma di olio combustibile dotata di una sottile rete di ottone che circondava lo stoppino ardente, l’ossigeno che alimentava la fiamma passava attraverso la rete ma, all’ingresso di altri gas come il metano, la fiamma si spegneva senza innescare esplosioni. [1]
Quest’invenzione fu un primo tentativo di rispondere ad un problema di sicurezza nelle miniere con un dispositivo che avesse funzioni di limitazione del rischio esplosione, ben prima che l’arrivo della corrente elettrica portasse altri rischi.
Figura 1: Principio di funzionamento della lampada di Davy [2]
Il carbone è una roccia sedimentaria che può trovarsi sulla superficie della crosta terrestre o in miniere sotterranee. Fa parte dei cosiddetti combustibili fossili e può essere utilizzato per produrre calore e da esso energia elettrica.
Il suo grande sfruttamento iniziò nel XVIII secolo in seguito all’invenzione della macchina a vapore. Quest’ultima spinse la rivoluzione industriale nel Regno Unito dove, fin dai primi decenni del XIX secolo, per reperire combustibile si sviluppò in maniera massiccia l’industria estrattiva del carbone.
Fin da subito apparve chiaro che il lavoro nelle miniere di carbone fosse molto pericoloso, la polvere del carbone se respirata danneggiava i polmoni e portava a malattie croniche, inoltre altro aspetto critico era la presenza di sacche di gas grisou che potevano palesarsi durante gli scavi portando a rischio di asfissia e/o esplosione. Il grisou è un gas composto in prevalenza da metano presente nelle miniere, dove tende ad accumularsi in sacche all’interno di gallerie.
Dunque, una fiammata iniziale di gas combusto può sollevare la polvere di carbone andandola ad incendiare e innescando un’esplosione di proporzioni devastanti.
Per dare un’idea di quanto fosse pericoloso all’epoca lavorare in miniera, basti pensare all’utilizzo del canarino in gabbia che veniva fatto avanzare dal primo uomo a scendere in miniera, il canarino si sarebbe agitato in caso di un quantitativo limitato di gas e sarebbe morto se la concentrazione fossa stata alta. Un gas detector ante litteram.
Non deve sorprendere quindi che i primi tentativi di sviluppare apparecchiature sicure sotto il profilo del rischio esplosione siano nati in questo particolare contesto.
Prima dell’avvento dell’utilizzo dell’energia elettrica l’illuminazione veniva realizzata tramite lampade a combustione, possiamo quindi capire quanto fosse difficoltoso illuminare le gallerie delle miniere sotterranee senza incorrere nell’innesco del gas grisou. Questo spinse il fiorire di più soluzioni tecniche al problema della realizzazione di una lampada sicura per l’utilizzo in miniera.
La lampada di Davy prende il nome del suo inventore sir Humphry Davy che presentò la sua invenzione alla Royal Society nel 1815 aggiudicandosi anche la medaglia Rumford un premio in denaro. Furono le prime lampade di sicurezza che andarono a sostituire le candele a fiamma libera usate fino a quel tempo.
Sir Humphry Davy agli inizi del XIX secolo era una personalità scientifica di prim’ordine, membro della Royal Society di cui poi fu presidente, applicò ai suoi studi di chimico l’elettricità da poco resasi disponibile grazie alla pila inventata dall’italiano Alessandro Volta. Ciò gli permise di applicare per primo il fenomeno dell’elettrolisi che lo portò ad isolare per la prima volta alcuni elementi chimici, in particolare: calcio, stronzio, bario, magnesio e boro.
Questa situazione decretò il successo e la diffusione della sua lampada nei confronti di altri modelli che erano stati inventati in quegli stessi anni. Precedente alla sua invenzione, infatti, vi fu la lampada di William Reid Clanny, databile al 1813. Quest’ultima non riscosse particolare successo, cosa che invece non mancò alla lampada di George Stevenson, perfettamente coeva a quella di Davy e leggermente diversa nella costruzione. A penalizzare la lampada di Stevenson, chiamata Geordie, fu il lignaggio del suo inventore. Sebbene fosse un imprenditore ricchissimo e conosciuto come uno dei padri della industria ferroviaria (basti pensare alla locomotiva di Stevenson) non godeva dell’indiscusso prestigio scientifico di sir Humpry Davy. Ciononostante, le lampade Geordie ebbero una certa diffusione nel nord est dell’Inghilterra nel XIX secolo fino all’introduzione della corrente elettrica.
Per avere un’idea di come fosse lavorare in una miniera europea del XIX secolo dobbiamo pensare che il lavoro era svolto ancora interamente tramite forza umana ed animale, vi erano infatti cavalli (Fig. 2 qui di lato), preferibilmente di piccola taglia, appositamente addestrati alla soma dei carrelli carichi di carbone.
Un importante miglioramento si ebbe con l’utilizzo della ventilazione forzata delle gallerie, operazione che consentì di migliorare l’ambiente dove operavano i minatori e gli animali, mantenere una temperatura idonea ed asportare inquinanti e gas pericolosi presenti, come appunto il grisou.
La lampada di Davy giocò un ruolo verso il miglioramento della sicurezza nelle miniere ma permanevano alcune criticità. Un difetto imputabile a questa lampada era la poca luce che era in grado di fornire, con i minatori costretti a tenerla molto vicino all’area di lavoro con il rischio di danneggiarla. Un altro problema era rappresentato dall’accensione della fiamma che doveva essere effettuata aprendo la lampada stessa, esponendo la fiamma all’atmosfera esterna senza la protezione della rete metallica. In caso di spegnimento andava quindi portata all’esterno delle gallerie e rappresentava una grande inefficienza specie a fronte della facilità con cui l’areazione forzata estingueva la fiamma.
Lungo tutto l’Ottocento, l’uso delle lampade ad olio combustibile era l’unico modo per portare luce nelle buie gallerie delle miniere, questo spinse lo sviluppo del loro design che cambiò nel corso degli anni nel tentativo di porre rimedio ai punti critici della lampada di Davy.
Tra le modifiche di maggior rilievo vi fu l’introduzione di un vetro cilindrico intorno alla fiamma e diversi percorsi alternativi dell’aria di combustione.
La prima modifica migliorava sia la luminosità che l’insensibilità alle correnti d’aria, la seconda permetteva alla fiamma di non ravvivarsi troppo a fronte di eccessiva ventilazione.
Un ruolo lo giocò anche la nazionalità di certi modelli, spinti all’utilizzo dalle rispettive autorità nazionali. Un caso da citare è quello della lampada Mueseler (Fig. 3) il cui utilizzo fu reso obbligatorio in Belgio nel 1864, che integrava il tubo di vetro e l’ingresso dell’aria dall’alto risultando più luminosa delle lampade di sicurezza inglesi coeve.
In Germania riscosse successo la lampada di Wolf (1883), alimentata a benzina; la fiamma in presenza di grisou anziché spegnersi andava a formare una fiamma conica che si tingeva d’azzurro.
Anche la facilità di apertura della lampada si era dimostrata un tallone d’Achille. Come già rimarcato, a fronte degli spegnimenti della lampada, non di rado i minatori aprivano la lampada per riaccenderla sul posto, andando ad innescare involontariamente esplosioni. Molti incidenti furono fatti risalire a questa cattiva pratica e ad essa si tentò di rispondere dei sistemi di apertura che richiedessero uno strumento idoneo, evitando l’apertura manuale.
Figura 3: La lampada di Mueseler, presentata in Belgio nel 1840
L’arrivo della illuminazione elettrica è stata una conquista del XIX secolo, ma non dobbiamo pensare che il suo sviluppo sia stato immediato, tutt’altro, l’invenzione della lampadina ad incandescenza ha richiesto quasi cent’anni.
Il già citato H. Davy presentò come l’elettricità potesse essere usata per produrre luce in una dimostrazione nel 1802 tenutasi presso la Royal Institution of Great Britain. Utilizzò più di 2000 celle per rendere incandescente una sottile striscia di platino. La luce emessa fu scarsa ed il metallo si sciolse in poco tempo. Seguirono numerosi tentativi che avrebbero portato allo sviluppo ed al perfezionamento dei dispositivi atti a creare luce elettrica lungo tutto il secolo.
Vi era poi l’aspetto della fornitura dell’elettricità, stiamo parlando di un’epoca in cui la rete elettrica non esisteva e le lampade che potevano essere utilizzate in miniera dovevano essere alimentate da batterie.
In questo contesto solo a fine secolo si affacciano delle invenzioni che sono specificatamente pensate per aumentare la sicurezza di questi dispositivi nell’ambito della estrazione mineraria.
L’uso delle lampade a incandescenza poteva portare all’innesco dei gas pericolosi tramite la rottura dei bulbi di vetro, all’epoca molto poco robusti. Il filamento permaneva a temperature elevate un tempo sufficiente ad innescare un’eventuale presenza di gas metano. Inoltre, si era osservato come lo stesso contatto, che chiudeva o apriva il circuito composto dalla lampada e dalle batterie, producesse scintille innescanti.
Possiamo citare il brevetto dell’inventore inglese Theophilus Cad, registrato negli Stati Uniti con il numero 413.708 nel 1889. Nel suo trovato l’inventore descrive due congegni. Il primo di questi è una camera a tenuta dell’aria dove è ubicato il contatto, un precursore del concetto di segregazione tra innesco ed atmosfera esplosiva della normativa odierna. Il secondo è il volume chiuso dal vetro che ospita la lampada dotato di una valvola che permette l’immissione di aria a pressione. Quest’aria agisce poi su un diaframma a spingere il contatto alla chiusura. Ne consegue che se il vetro viene rotto l’aria pressurizzata esce ed il contatto apre il passaggio della corrente elettrica. Si evita così l’innesco dovuto a danni sulla lampada. Anche questo espediente per certi versi ricorda la protezione mediante pressurizzazione, uno dei metodi di protezione moderni basati sulla segregazione.
Figura 4: Immagine tratta dal brevetto US 413.708
Ai nostri giorni la classificazione delle zone a rischio esplosione riguarda molti settori della industria e comprende l’utilizzo delle più diverse apparecchiature.
Questa grande varietà di dispositivi ed applicazioni non deve farci dimenticare che l’origine delle tecniche di contenimento del rischio esplosione risiede laggiù, in quelle oscure miniere dove tutto ha avuto inizio.
Note e riferimenti bibliografici
[1]In caso di combustione del metano la maggiore aria richiesta richiedeva una velocità maggiore dell’aria comburente, ostacolata dalla rete. La combustione a quel punto soffocava.
[2]Electrical Installations in Hazardous Areas – Elsevierr – 1998 - Alan McMillan – Pag. 5